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Banda della Magliana, smentita la morte di Antonio Mancini

La notizia è stata diffusa nel pomeriggio di ieri, martedì 2 gennaio: Antonio Mancini, detto ‘Accattone’, è morto. Ma si trattava di uno scambio di persona. Sì, perché a spegnersi, ieri, non è stato «Accattone», collaboratore di giustizia dal 1994, ma un altro Mancini, altro componente della banda della Magliana: Luciano.

Morte Mancini, il messaggio del figlio

A chiarire l’equivoco è stato il figlio di Luciano Mancini, conosciuto anche con il soprannome de ‘Il principe’: “in queste ore nel dare conto della morte di mio padre, Luciano, c’è stato un errore di comunicazione, legato al fatto che il mio papà aveva lo stesso cognome del collaboratore di giustizia Antonio Mancini, anche lui componente della banda della Magliana, il quale invece è vivo”, ha scritto Massimiliano Mancini.

Mancini detto ‘er Principe’, aveva 88 anni ed era stato considerato in passato un investitore dei capitali che provenivano dall’organizzazione criminale. L’altro Mancini, Antonio, dopo la notizia della sua morte – riporta il Corriere della Sera – avrebbe scherzato con alcuni suoi conoscenti in chat: “Dicono che sono morto a 85 anni… Pertanto c’ho altri dieci anni assicurati…”.

Chi è Antonio Mancini

Antonio Mancini è uno degli esponenti di spicco della Banda della Magliana, uno dei fondatori e tra i pochi rimasti a conservare i segreti più profondi della banda criminale nata a Roma alla fine degli anni Settanta. Nel 1979, dopo aver lasciato l’istituzione di lavoro di Soriano nel Cimino (libero dal ottobre 1980), Mancini entra a far parte della Banda della Magliana. All’interno di essa, il suo ruolo principale consiste nel correggere gli ingiusti comportamenti (cioè, “persuadere” eventuali debitori morosi o altri audaci che si oppongono alla legge imperiale della banda).

Mancini coltivava una profonda amicizia con il capo testaccino Danilo Abbruciati, noto come “Er camaleonte”, che accompagnò più volte a Milano quando il criminale Francis Turatello era sotto processo. Insieme al “camaleonte”, formò il gruppo di esecuzione per Antonio Leccese, durante la stessa spedizione che portò all’eliminazione di Nicolino Selis (cognato di Leccese) il 3 febbraio 1981, a causa di dissidi interni alla banda. Poco più di un mese dopo, partecipò all’agguato di via di Donna Olimpia ai danni dei fratelli Proietti, noti come “pesciaroli”, accusati dalla Magliana di aver assassinato il loro capo Franco Giuseppucci, detto “Er negro”, il 13 settembre 1980.

La sera del 16 marzo 1981, Antonio Mancini e Marcello Colafigli attaccarono Maurizio Proietti, noto come “il pescetto”, e il fratello Mario, soprannominato “palle d’oro”, nei pressi di via di Donna Olimpia nº152 a Monteverde, un quartiere di Roma. Nello scontro a fuoco che ne seguì, Maurizio Proietti perse la vita, mentre i due membri della Banda della Magliana furono feriti.

Nel tentativo di sfuggire all’arresto e creare una via di fuga, Colafigli e Mancini orchestrarono il rapimento di uno dei figli dei Proietti, ma il loro piano non ebbe successo. Durante il processo, Maurizio Abbatino testimoniò di essere stato presente sul luogo insieme a Raffaele Pernasetti e Giorgio Paradisi in macchina, ma fuggì con l’arrivo della polizia. Il pentito affermò di aver preparato un alibi, sostenendo di essere a casa di Alvaro Pompili a Filettino insieme a Edoardo Toscano. Tuttavia, durante l’udienza, Mancini, Colafigli e Pernasetti smentirono le dichiarazioni di Abbatino.