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Lunga vita ai Maneskin!

Non sono mai stato un fan dei Maneskin. Nel senso che, pur sapendo chi fossero, non sono mai andato spontaneamente ad ascoltare un loro disco, a vederne un concerto, a tesserne le lodi semplicemente per aver condiviso con il frontman Damiano lo stesso liceo romano, ahimè frequentato diversi anni prima di lui. Eppure, eccomi a guardare con ammirazione quello che può essere definito senza ombra di dubbio il gruppo rivelazione di questo inizio 2021. E lo dico pensando ancor prima al Festival di Sanremo. Al netto dei caroselli social, stile Mondiali del 2006, che hanno accompagnato la vittoria all’Eurovision della band, in quanti avrebbero scommesso su di loro? E soprattutto: chi, in tempi non sospetti, solo qualche mese fa gli avrebbe riconosciuto la capacità di risollevare le sorti della musica leggera italiana oltre confine? A voler essere onesti, credo in pochi.

Eppure, eccoli i Maneskin, a portare alto il nome dell’Italia agli Europei della musica, a sovvertire lo stereotipo di un certo pop di stampo americano e latino, di cui l’Eurovision, come gran parte delle nostre radio, era fin troppo pieno. A dispetto dei gusti musicali di ciascuno, dobbiamo essere molto contenti della loro vittoria. Non solo per questa sorta di patriottismo musicale che si è impossessato di noi dopo averne constatato l’impresa. Dobbiamo esserlo nel prendere atto che qualcosa sta cambiando, non esclusivamente in una scena musicale che ormai da tempo ha iniziato un suo percorso di rinnovamento e ringiovanimento ma nella percezione che stiamo cominciando ad avere di essa. Stiamo imparando a riconoscere una generazione che, dopo una fase di rottura passata soprattutto attraverso un linguaggio nuovo e disturbante, sta rimettendo insieme i pezzi per riscrivere le regole del mainstream, riconquistandosi la dignità di farsi interprete della musica contemporanea e di rappresentarla, riconciliandosi con il presente e facendo pace con il passato. La Belle Époque della musica deve essere un riferimento a cui tendere e non un impedimento alla nascita degli artisti del futuro, che devono avere la libertà di esprimersi senza dover essere per forza meglio o peggio di qualcun’altro. I Maneskin, in questo macchinoso ma necessario processo, hanno messo d’accordo, se non tutti, molti.

Sono riusciti a farlo nonostante le chitarre distorte e le tutine trasgressive, attraverso una proposta innovativa per gli standard odierni. Lo so a cosa state pensando: non si sono inventati niente! Ed è vero, ma dobbiamo uscire anche da questa logica. In un mondo in cui è sempre più difficile fare qualcosa di diverso senza essere surclassati dalla “musica leggerissima” o essere definiti una “copia di”, spesso non è importante cosa fai ma come lo fai. La band romana l’ha fatto in maniera credibile e coerente, restituendo al rock una dimensione pop onestissima e più che rispettabile.

Merito di un percorso che, seppur agevolato da talent e major, li ha resi un esempio positivo di gestione sana della popolarità, con parsimonia e senza fare mai il passo più lungo della gamba, nonostante una parabola ascendente piuttosto rapida. In sei anni sono passati dalla strada al talent, dai dischi ai tour, prima italiani e poi europei, in un percorso ricalcato nel riconoscimento del successo attraverso i premi vinti. Si sono trovati al posto giusto, al momento giusto, ci sono saputi arrivare. Il tutto senza doversi snaturare, con una proposta fresca, suonata, priva di autotune e basi prefabbricate. Senza particolari clamori che non fossero musicali, con gran riserbo sulla propria vita privata e una giusta dose di umiltà. “Zitti e buoni” per dirla a parole loro. A testa bassa verso un successo meritato, paladini della possibilità che i giovani cerchino, prima ancora di trovare, il proprio compimento musicale. La bellezza di avere 20 anni sta anche nel sapere che c’è ancora molta strada da fare, lungo la quale costruirsi, sbagliare, migliorarsi. Gli va concesso. Lunga vita ai Maneskin!