Home NOTIZIE SPETTACOLI Exuvia: dobbiamo essere molto contenti del nuovo disco di Caparezza

Exuvia: dobbiamo essere molto contenti del nuovo disco di Caparezza

Instagram @fotocaparezza

Fermi tutti, è tornato Caparezza. E lo ha fatto in grande stile, con un nuovo disco che ci riallinea al concetto di arte legata alla musica. Si chiama Exuvia ed è una sorta di galleria dove, in un’ora esatta, ammirare 14 opere dipinte su canzone e 5 skit, che nel gergo rap/hip-hop sono l’equivalente delle targhe che alle mostre ti spiegano un quadro. Il rapper pugliese si conferma un artigiano delle parole, le modella e le plasma a suo piacimento, architettando la sua costruzione semantica come un labirinto dialettico che non da punti di riferimento, in cui perdersi per uscirne un po’ frastornati ma, seppur inconsciamente, più consapevoli.

La narrazione è in piena continuità con Prisoner 709, penultimo lavoro in studio e libera esternazione della profonda crisi interiore di Michele Salvemini, in arte Caparezza. Quel che ci restituisce è un artista nuovo che ha compiuto la sua rivoluzione personale, fuggendo da quella prigione, e tornato per raccontarci questa nuova alba di sé. Un’evoluzione testimoniata a partire dal titolo: l’Exuvia, infatti, è ciò che rimane del corpo di alcuni insetti dopo la muta. Un cambiamento di cui sopravvive come unica traccia formale e tangibile una specie di custodia trasparente “che un tempo ospitava la vita e che ora se ne sta lì, immobile, simulacro di una fase ormai superata”, come ammette lui stesso.

Nonostante questa mutazione, Caparezza conferma tutta la sua genialità creativa, il gusto per la complessità e quell’appassionata e meticolosa costruzione d’incastri e metriche. Un viaggio sonoro in cui l’artista ci racconta la sua Fugadà quella “selva oscura” in cui si era smarrito, Il Sentiero percorso, La Scelta fatta, come unica via d’uscita dall’impasse. Un percorso che, passando attraverso il suo Eterno Paradosso in ricordo di quando doveva essere un Campione dei Novanta, culmina in Exuvia, la title track e primo singolo estratto, come finale approdo da cui poter osservare da lontano la tempesta che ci si è lasciati alle spalle dopo aver spiegato le ali.

Un disco che è come una bussola con cui orientarsi nella jungla musicale odierna, fissando alcuni punti fermi. Un antidoto contro “il vuoto di una hit continua”, contro il lento ma inesorabile svuotarsi della sostanza a vantaggio della forma, dell’affermazione del prodotto a discapito dell’arte, della facilità consumistica di molti brani. Del resto, la qualità ha bisogno di tempo e ci sono voluti quattro anni, tanto impegno e coraggio per tirare fuori un disco così: complesso, multistrato ma nitido nella sua lucidità. Un’ottima scelta, di cui anche noi dobbiamo essere molto contenti.